venerdì 26 ottobre 2012

Tibet, niente ferma le immolazioni


Tamdin Dorje, 50 anni; Lhamo Kyab, poco piu' di 20 anni;  Dorje Rinchen intorno ai 50 anni e Dondup, che aveva piu' o meno 60. Le loro "autoimmolazioni" - i suicidi che vengono realizzati cospargendo il proprio corpo di kerosene e poi dandosi fuoco - portano a 58 il totale di quelle che si sono avvenute in Tibet (espressione con la quale indico la Regione Autonoma del Tibet e le aree a popolazione tibetana della province del Sichuan, Gansu, Qinghai e Yunnan) a partire dal marzo del 2011 (solo una si e' verificata prima, nel 2009). Le ultime quattro "autoimmolazioni" sono avvenute in poco piu' di una settimana, dal 13 al 23 ottobre. Tutte e quattro si sono verificate nella prefettura autonoma tibetana di Gannan (Xiahe in cinese), nel Gansu, dove sorge il monastero di Labrang, che sta diventando uno dei centri della rivolta. La tendenza ad un' accelerazione di questa terribile forma di protesta e' evidente. Le forze di sicurezza cinesi sono presenti in forze e cercano in tutti i modi di impedire che le immolazioni abbiano luogo, senza successo. Il governo tibetano in esilio - il cui vero e' Central Tibet Administration - le ha condannate (pur condividendo "le aspirazioni" dei suicidi, come spiega il suo "kalon tripa" o primo ministro Lobsang Sangay nell' intervista che mi ha concesso, e che pubblico qui sotto). Ma nulla sembra in grado di fermarle se non un' iniziativa politica che riapra i giochi nel Tibet e della quale non si vede traccia.

ecco l' intervista:

ANSA/ TIBET: SANGAY, 'SOLO IL DIALOGO PUO' FERMARE IMMOLAZIONI'
CAPO GOVERNO TIBETANO IN ESILIO, CINA TORNI A TAVOLO NEGOZIATO

(di Beniamino Natale) (ANSA) - ROMA, 25 OTT - Secondo Lobsang Sangay, ''kalon trippa'' (primo ministro) del governo tibetano in esilio, il dramma delle immolazioni potra' finire in Tibet solo con ilritorno della Cina al tavolo delle trattative. Fino ad oggi 58 tibetani (50 uomini e otto donne) si sono immolati col fuoco in segno di protesta contro Pechino, e almeno 49 di loro sono morti per le ustioni riportate. ''Noi abbiamo condannato le immolazioni e abbiamo chiesto ai nostri compatrioti di smettere, ma non ci ascoltano;sono gesti dettati dalla disperazione'', spiega Sangay in un'intervista all'ANSA.
   Sangay, 44 anni, e' in Italia per partecipare alla presentazione del progetto ''Nuovo Metodo'', un'iniziativa di aiuto agli studenti tibetani in esilio lanciato da 12 organizzazioni non governative italiane col sostegno della provincia di Roma.  ''Condanniamo le immolazioni - ripete - ma condividiamo le aspirazioni di coloro che hanno scelto questo metodo di protesta. Cosa chiedono? Prima di tutto, il ritorno in patria del Dalai Lama; e in secondo luogo la liberta' per i tibetani''. ''Liberta' per noi significa una genuina autonomia amministrativa all'interno della Cina, nel quadro della Costituzione cinese'', puntualizza. 
   In Cina e' in corso un difficile processo di rinnovamento della leadership, con la generazione degli ultrasettantenni guidata dal presidente Hu Jintao che si appresta a cedere il passo ai 'giovani' sessantenni nel 18esimo Congresso del Partito comunista, che aprira' i suoi lavori l' 8 novembre. A Hu succedera' il suo attuale vice, Xi Jinping. Pechino e i rappresentanti del Tibet non si parlano dal 2008, quando circa 200 persone - secondo fonti tibetane - morirono in una violenta rivolta anti-cinese pochi mesi prima delle Olimpiadi di Pechino. ''Non mi aspetto immediati cambiamenti dalla nuova leadership'', afferma Sangay, ''ci sara' bisogno di un periodo di consolidamento che durera' almeno fino alla prossima primavera. Qualcosa di nuovo si potra' vedere a partire dal marzo del 2013. Certo, pressioni piu' forti da parte di Unione Europea e Stati Uniti sarebbero utili''.
   Lobsang Sangay, nato in esilio a Darjeeling, in India, si e' laureato in legge nel 2004 nella prestigiosa Universita' di Harvard, negli Usa, grazie ad una borsa di studio del Fulbright Program. In seguito, e' rimasto a Harvard come docente. Nell' agosto 2011 e' stato scelto come capo del governo tibetano in esilio, che ha sede a Dharamsala in India, da circa 50mila esiliati tibetani  in grado di partecipare alle elezioni. Pochi mesi prima il Dalai Lama, leader tibetano e premio Nobel per la pace riconosciuto in tutto il mondo come il portavoce della causa del suo popolo, aveva rinunciato al ruolo ''politico'' di capo del governo in esilio. 
La ''rinuncia'' del Dalai Lama ha fatto del ''kalon tripa'' Lobsang Sangay la figura pubblica piu' autorevole, proiettandolo nel ruolo d'interlocutore della Cina, se questa decidera' di tornare al dialogo con i tibetani.
  Sangay non sembra spaventato dal compito: ''Ora il dialogo e' fermo - osserva -, ma penso che i cinesi mi conoscano e mi prendano sul serio. Per il momento il mio compito e' lavorare duro per mantenere la speranza dei tibetani in un futuro diverso''. (ANSA).

domenica 21 ottobre 2012

Malala e la memoria corta dei pakistani


L' articolo del New York Times che pubblico qui sotto si apre con le dichiarazioni di un trentenne ''imprenditore di Internet" di Rawalpindi che dice: "Abbiamo sentimenti contrastanti su Malala…Sono stati gli americani che le hanno sparato o e' stata Al Qaeda? Non lo sappiamo. C' e' gente che pensa che sia tutta una trovata propagandistica degli americani per diffondere le loro idee contro i Taliban". Gli americani? Una trovata propagandistica?
Si potrebbe pensare che il giovane che ha fatto queste deliranti dichiarazioni sia un caso isolato, un estremista. Non e' cosi'. Purtroppo si tratta di un sintomo di una grave malattia che affligge la upper e la middle class pakistane. E la middle e la upper class, ahinoi, sono quelle dalle quali provengono i giornalisti, i diplomatici, gli scrittori, gli stuodiosi. In altre parole, coloro ai quali ci rivolgiamo per capire qualcosa di quel paese, le persone che hanno un ruolo di primo piano nel formare la nostra opinione su quello che succede in Pakistan.
In inglese, si chiama "a state of denial", in italiano, direi, "uno stato delusionale". Il ritornello che viene cantato in varie tonalita' da differenti attori e' questo: l' estremismo islamico non appartiene al Pakistan ma e' stato un velenoso regalo fatto dal Paese asiatico dagli americani per i loro inconfessabili motivi. 
Molti anni fa Jugnu Moshin, una brava e coraggiosa giornalista di Lahore, mi disse piu' o meno queste parole, prendendo spunto dal fatto che il presidente Ronald Reagan aveva ricevuto alcuni leader dei mujaheddin afghani tra cui Gulbuddin Hekmatyar, effettivamente uno dei piu' violenti, ignoranti, odiosi agenti dell' Internazionale del terrore, un uomo che, grazie ai finanziamenti pakistani e iraniani ha commesso alcuni dei crimini piu' gravi ad essersi verificati nel suo disgraziato paese. "E chi e' Hekmatyar? - mi disse Jugnu - e' lo stesso di Osama bin Laden…Gli americani hanno creato gli Osama bin Laden e ce li hanno rifilati a noi, in Pakistan….". Eh no, cara Jugnu. Troppo comodo.
La verita' che gli estremisti afghani come Hekmatyar e come i Taliban - che sono un fenomeno "AfgPak", sia afghani che pakistani per nascita, ispirazione e storia - e quelli pakistani sono stati inventati, alleati e nutriti dal Pakistan (e dall' Iran, e dall' Arabia Saudita, ma sopratutto dal Pakistan). 
E sono loro che hanno sparato a Malala Yousufzai e alle altre ragazze.
Gli americani, come gli europei, gli arabi e i cinesi, parteciparono alla jihad afghana - la Guerra Santa per cacciare gli invasori sovietici - con soldi e armi e con qualche consulenza sul campo. Ma chi gestiva quei soldi e quelle armi, favorendo personaggi come Hekmatyar  - cioe' estremisti di piccolo calibro che non avevano alcuna possibilita' di rendersi autonomi - e' sempre stato il servizio segreto militare, l' Inter Service Intelligence (ISI). Servizio segreto che non e' mai stato "deviato" ma e' sempre stato diretto dai capi dell' esercito e dai capi di stato e di governo del Pakistan. Fu Zulfikar Ali Bhutto, ancora prima dell' invasione sovietica dell' Afghanistan, ad invitare in Pakistan gli allora giovani leader dell' estremismo islamico afghani, tra cui lo stesso Hekmatyar e Ahmad Shah Massud. Bhutto aveva intuito che avrebbe potuto usarli contro chiunque fosse al potere a Kabul, perche' chiunque sia al potere a Kabul potrebbe un giorno essere tentato di mettere in discussione l' appartenenza al Pakistan delle Federal Administered Tribal Area (FATA), le aree abitate dai tribali pashtun che sono state il motore della jihad anti-sovietica e poi sono diventate la patria dei Taliban e di Al Qaeda. Contrariamente ad una di quelle favole che vengono ripetute pappagallescamente da ignoranti di varia estrazione (come diceva Joseph Goebbles? "Se racconti una balla abbastanza grande e continui a ripeterla, la gente finira' per crederci…") Osama bin Laden non ha mai avuto rapporti con i servizi segreti americani. Invece, ne ha avuti e come con quelli pakistani. Sono i servizi pakistani che lo hanno tenuto per anni al caldo ad Abbottabad, dove e' stato ucciso dai navy seals su indicazione dei servizi americani. 
E negli anni seguenti gli estremisti fuorono nutriti e usati in Afghanistan ma anche a sudest, contro l' odiata India. Il generale Zia ul-Haq dette il suo contributo distruggendo quel poco che esisteva di istituzioni pubbliche come le scuole, aprendo la strada alle madrasas che ignoranti mullah gestivano - gestiscono - con i soldi che vengono dai ricchi paesi del Golfo. Un altro generale, di altra estrazione politica, l' alleato di Zulfikar e Benazir Bhutto Nasirullah Babar, tenne a battesimo la mostruosa creatura che oggi, oltre all' Afghanistan, minaccia lo stesso Pakistan: i Taliban del mullah Omar.
Ma torniamo alla upper e middle class pakistana: solo quando questa smettera' di credere alle favole secondo le quali senza i cattivi americani, senza la minaccia indiana, insomma, senza fattori esterni il Pakistan sarebbe un paese islamico moderato e gli estremisti sparirebbero come per incanto, si potra' sperare in un futuro diverso per questo disgraziato paese. Purtroppo, il Pakistan mi sembra ineluttabilmente avviato verso una deriva islamico-estremista a causa dei suoi stessi sbagli, sbagli che non riesce a riconoscere e tantomeno a correggere.

ecco qui sotto l' articolo del NYT prima nella mia traduzione, poi nella versione originale:

IL 'MOMENTO DI MALALA'  POTREBBE ESSERE PASSATO IN PAKISTAN, MENTRE LA RABBIA PER L'ATTENTATO SVANISCE.

di Declan Walsh
Il ben vestito giovane imprenditore di Internet si gode il sole davanti ad un McDonald, a pochi passi dal quartier generale dei militari pakistani, mentre riflette sulla rabbia generata dalla vicenda di Malala Yousufzai, la ragazza che ha sfidato i Taliban e che e' stata ferita alla testa da un colpo di arma da fuoco.
"Abbiamo sentimenti contraddittori su Malala", afferma l' uomo, il trentenne Raja Imran, gli occhi nascosti dai rayban, mentre giocherella con un pacchetto di Malboro. "Sono stati gli americani a spararle o Al Qaeda? Non lo sappiamo. Alcuni pensano che sia tutta propaganda americana per  diffondere le loro idee contro i Taliban".
E lui, cosa ne pensa? Imran da' una scrollata di spalle.
Molti giovani clienti del ristorante esprimono la stessa ambivalenza. Altri domandano: e le altre due ragazze ferite nell' attacco? "E  Aafia Siddiqui?' si chiede una giovane donna, riferendosi alla donna pakistana processata da un tribunale di New York per aver cercato di uccidere soldati americani e agenti dell' FBI e condannata a 86 anni di prigione.
"Di lei non parla nessuno", dice la donna con uno sguardo deciso prima di schizzare via.
Questo scetticismo ispirato a teorie della cospirazione sulla giovane Yousufzai, che e' stata ferita sul suo autobus scolastico da un Taliban, e' solo uno degli atteggiamenti dell' opinione pubblica; altri hanno espresso una rabbia senza riserve contro l' attacco. Ma suggerisce qualcosa di scoraggiante: che in Pakistan il ''momento di Malala" e le possibilita' che ha brevemente evocato e' passato. 
Nei primi giorni dopo l' attacco, che si e' verificato il 9 ottobre, alcuni pakistani hanno sperato che potesse portare ad un cambiamento radicale nella loro societa'. Per anni, la capacita' del paese di tenere testa ai Taliban e' stata indebolita da una profonda ambiguita' che ha impedito l' emergere di una consenso nazionale contro la violenza islamica. I gruppi religiosi hanno esistato a criticare i Taliban per ragioni religiose. I politici avevano paura di parlare per ragioni politiche. E i militari, che storicamente hanno sostenuto gli islamisti per combattere le loro guerre per procura in India o in Afghanistan, hanno aumentato la confusione appoggiando i loro preferiti gruppi estremisti, conosciuti come i "Taliban buoni".
Ma dopo che la Yousufzai e' stata ferita, commoventi immagini della ragazzina ferita sono state messe a paragone con i minacciosi comunicati dei Taliban che hanno affermato che la attaccheranno di nuovo, se ne avranno l' opportunita'. Tutt' a un tratto, il paese ha parlato con la stessa, infuriata voce.
Leader politici e religiosi hanno condannato i Taliban con una passione insolita. Il capo dell' esercito, il generale Ashfaq Parvez Kayani, ha visitato la giovane in ospedale e ha affermato in una rara dichiarazione pubblica che i militari "rifiutano di piegarsi al terrore". Scrittori hanno paragonato il blog di Malala al diaro di Anna Frank. I politici conservatori sono stati messi sotto osservazione.
Solo due giorni prima dell' attacco Imran Khan, l' ex-star del cricket le cui fortune politiche sono cresciute nell' ultimo anno, ha guidato un rumoroso corteo motorizzato ai confini delle aree tribali, dove hanno protestato contro gli attacchi con i droni condotti dalla CIA nelle vicine montagne. La manifestazione ha avuto una copertura largamente favorevole da parte dei media.
Ma dopo l' attacco, Khan e' stato severamente criticato, in parte perche' sostiene un negoziato con i Taliban invece di combatterli, in parte perche' ha rifiutato di condannarli in un' intervista televisiva. "Se oggi comincio da qui a lanciare slogan contro i Taliban, chi li salvera'?" , si e' chiesto Khan. I commentatori hanno sostenuto che quest' episodio ha minato la credibilita' di Khan. "Ci sono state preoccupazioni latenti sulla sua politica verso i Taliban", ha detto il giornalista televisivo Fahd Hussain. "E questo ha fatto ricordare che lui non e' mai stato chiaro su quest' argomento". Da parte sua, Khan e' rimasto sulle sue posizioni. "I nostri liberali sostengono le soluzioni militari, nonostante queste siano controproducenti", ha sostenuto. "Ogni operazione militare fa aumentare l' estremismo e il fanatismo".
Un' operazione militare, in ogni caso, e' esattamente quello di cui si parlava all' inizio della settimana, quando gli alti gradi militari hanno tenuto una riunione segreta di due giorni che ha suscitato voci su un assalto alla roccaforte dei Taliban del Nord Waziristan - una cosa fortemente richiesta dall' amministrazione Obama. A quel punto, la reazione contro la giovane Yousufzai era gia' partita in forze. La destra religiosa ha attaccato la ragazza diffondendo su Internet immagini che la mostravano in incontri con alti funzionari americani e che implicitamente la accusavano di essere un agente americano. Mercoledi' in Parlamento, una mozione a favore di un' "operazione militare" contro i Taliban e' stata bloccata dall' opposizione. La maggior parte dei commentatori ritiene ora improbabile nel breve periodo un assalto militare al Nord Waziristan.
Tutte le finestre che si erano aperte - per un' azione militare o per una nuova unita' politica contro i Taliban - sembrano ora essersi chiuse. "E' stato un momento d' oro - ha commentato Hussain, il giornalista - " ma questo e' quello che e' stato: un momento". Altri dubitano che quel momento sia mai esistito. "ricordatevi che siamo una societa' confusa e psicologicamente divisa", ha detto Ayaz Amir, un esponente dell' opposizione che non ha peli sulla lingua. "E' troppo pensare che la nostra opinione politica nazionale possa cambiare cosi' rapidamente".
In un certo senso, la politica piu' chiara e' quella dei Taliban. Questa settimana gli estremisti hanno pubblicato una giustificazione di sette pagine della violenza che hanno usato contro la giovane. "Malala parlava apertamente contro il sistema islamico e dava interviste a favore dell' educazione all' occidentale e si truccava pesantemente", diceva, mentre rivolgeva minacce ai giornalisti che criticavano l' attacco.
Altri, comunque, vedono un lato positivo: che i pakistani hanno stabilito una linea rossa per quanto riguarda gli attacchi dei Taliban. "Puoi essere un musulmano devoto, odiare l' America ed essere piu' contrario ai droni di Imran Khan", ha affermato Nusrat Javed, una commentatrice televisiva. "Ma se hai delle figlie che vogliiono studiare, la condanna per queste cose e' inevitabile". Secondo Amir, l' esponente dell' opposizione, tutta la vicenda indica che i pakistani hanno l' urgente esigenza di "essere chiari" sui Taliban. "Ci deve essere un consenso intellettuale sul fatto che siamo andati troppo in la'"., ha detto.
"Dobbiamo stabilire un confine".



 RAWALPINDI, Pakistan — The smartly dressed Internet entrepreneur basked in the sun outside a McDonald’s, down the road from Pakistan’s military headquarters, considering the furor over Malala Yousufzai, the schoolgirl who had taken on the Taliban only to be shot in the head.

“We have mixed feelings about Malala,” said the man, Raja Imran, 30, his eyes shaded by sunglasses, fiddling with a pack of Marlboros. “Was it the Americans who shot her or was it Al Qaeda? We don’t know. Some people think this is all an American publicity stunt to make their point against the Taliban.”
And what did he himself think? Mr. Imran shrugged.
Several young customers at the restaurant were similarly ambivalent. Others asked: What about the other two girls wounded in the shooting? “And what about Aafia Siddiqui?” asked one young woman, referring to the Pakistani woman convicted on charges of trying to kill American soldiers and F.B.I. agents by a New York court in 2010 and sentenced to 86 years in prison.
“Nobody mentions her,” said the woman, who gave her name as Maria, with a pointed glance before darting away.
Such conspiracy-laden skepticism about Ms. Yousafzai, who was shot by a Taliban gunman inside her school bus, is only one strand of public opinion here; others have expressed unqualified anger at the attack.
But it does suggest something dispiriting: that Pakistan’s “Malala moment,” and the possibilities it briefly excited, has passed.
In the immediate aftermath of the Oct. 9 assault, some Pakistanis hoped it could set off a sea change in their society. For years, the country’s ability to resist Taliban militancy has been hamstrung by a broad ambiguity that undermined a national consensus against Islamist violence.
Religious groups hesitated to challenge the Taliban for religious reasons. Politicians feared speaking out on safety grounds. And the military, which has a history of nurturing Islamists to fight its proxy wars in India or Afghanistan, equivocated by tacitly supporting selected militant outfits, known among militancy experts as the “good Taliban.”
But after Ms. Yousafzai was shot, heart-rending images of the wounded child bounced against coldblooded Taliban statments that the militans would shoot her again, if they had a chance. The country suddenly spoke with a unified, furious voice.
Politicians and religious leaders condemned the Taliban with unusual passion. The army chief, Gen. Ashfaq Parvez Kayani, visited Ms. Yousafzai’s bedside and released a rare public statement that the military would “refuse to bow before terror.”
Writers compared the teenage blogger to Anne Frank. Conservative politicians came under harsh scrutiny.
Just two days before the attack, Imran Khan, the former cricket star whose political star has soared in the past year, had led a honking motorcade of supporters to the edge of the tribal belt, where they mounted a protest against CIA-directed drone strikes in the nearby mountains. They received largely favorable news media coverage.
But after the shooting, Mr. Khan came in for sharp criticism, partly because he favors negotiating with the Taliban instead of fighting them, and partly because he refused to condemn the militants in a television interview, citing safety concerns for his followers in the tribal belt. “If today I start shouting slogans here against Taliban, who will save them?” Mr. Khan asked.
Commentators said the episode hurt Mr. Khan’s credibility. “There had been latent fears about his Taliban policies,” said Fahd Hussain, a television presenter. “This thing suddenly reminded people that he is not really clear on this subject.”
Mr. Khan, for his part, is sticking to his guns. “Our liberals support military solution despite them being counterproductive,” he wrote in an e-mail. “Each military operation leads to more militancy and fanaticism.”
A military operation, however, is exactly what was being speculated about early this week, when the country’s top generals held a secretive two-day meeting that stoked speculation they were planning a long-anticipated assault on the Taliban stronghold of North Waziristan — a major demand of the Obama administration.
By then, however, the backlash against Ms. Yousafzai had already started in earnest. The religious right attacked the wounded schoolgirl, circulating images on the Internet that showed her meeting senior American officials and implying that she was an American agent.
Other politicians showed little conviction. With the exception of the Karachi-based Muttahida Qaumi Movement, no party organized mass street rallies against the Taliban — a stark contrast with the violent riots that seized the country weeks earlier in reaction to an American-made video insulting the Prophet Muhammad.
In Parliament on Wednesday, a government motion in favor of a “military operation” against the Taliban was blocked by the opposition. Most commentators now say a military drive into North Waziristan is unlikely anytime soon.
Whatever window had been opened — for military action, or a new unity against the Taliban — now appears to have closed. “It was a golden moment,” said Mr. Hussain, the journalist. “But that’s what it was — a moment.”
Others doubted the moment ever existed. “Remember that we are a confused and psychologically divided society,” said Ayaz Amir, an outspoken opposition politician. “So it is too much to hope that our national thinking could turn in the other direction so quickly.”
In some senses, the clearest policy comes from the Taliban. This week the militants published a seven-page justification for their violence against Ms. Yousafzai — “Malala used to speak openly against Islamic system and give interviews in favor of Western education, while wearing a lot of makeup,” it read — and threatened to kill journalists who criticized its tactics.
Others, however, see a silver lining: that Pakistanis have drawn one major red line when it comes to Taliban aggression. “You can be a devout Muslim, hate America and be more upset than Imran Khan about drones,” said Nusrat Javed, a television commentator. “But if you have daughters who want to go to school, there is universal condemnation of something like this.”
The whole episode shows that Pakistanis have an urgent need to “be clear” about the Taliban, said Mr. Amir, the politician. “There needs to be an intellectual consensus that we have gone far enough,” he said. “We must draw a line.”






giovedì 18 ottobre 2012

Guarda un po', qualcuno si ricorda di Zhao Ziyang


Pubblico un interessante articolo che appare sul South China Morning Post di oggi. Con l' avvicinarsi dello "shiba da", il "grande 18esimo", cioe' il congresso del partito che dovra' consacrare una nuova leadership, si torna a parlare con insistenza di riforme. 
Gli ottimisti sottolineano che senza riforme il partito rischia di morire (ecco il link ad un ottimo servizio di China Files sull' argomento: http://www.china-files.com/it/link/22060/riforme-o-morte-ovvero-il-futuro-della-rpc) e non possono mancare gli illusi che parlano del leader in pectore Xi Jinping come del "Gorbaciov cinese". 
Sorry, gia' l' ho sentita. 
Precisamente dieci anni fa, quando stava per salire al potere il duo Hu Jintao/Wen Jiabao.  Diplomatici, giornalisti e osservatori vari davano per scontato che presto sarebbero state varate riforme decisive, che avrebbero limitato lo strapotere dei funzionari di partito e fatto della Cina uno stato di diritto. Stiamo ancora aspettando. 
Prima si e' detto che Hu doveva consolidare il proprio potere, poi ci si e' esaltati per l' unica vera riforma che e' stata fatta in questi anni, cioe' l' abolizione delle tasse per i contadini: importante, si, ma che si pensava sarebbe stata seguita da altre, perlomeno dall' abolizione dell' "hukou", il permesso di residenza inventato dai maoisti per controllare i movimenti di popolazione. Invece, niente. 
Poi sono venute la rivolta in Tibet (2008), quella nel Xinjiang (2009), la condanna del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo. L' apparato poliziesco e' cresciuto a dismisura e i suoi esponenti, come il responsabile della sicurezza del Comitato Permanente dell' Ufficio Politico (CPUP), Zhou Yongkang, hanno acquistato un potere sempre maggiore (e se ne sono accorti anche i principini, che pare vogliano eliminare dal Comitato Permanente del Politburo il posto del responsabile della sicurezza). 
Molti hanno visto nel caso Bo Xilai la spinta decisiva per la ripresa della strada delle riforme, congelate da Hu/Wen. Ho spiegato nel post "Una brava giornalista, le riforme e le illusioni", del 15 ottobre, perche' non sono d' accordo. Non voglio pero' nascondere i dati incoraggiati, come il fatto che la (spontanea?) commemorazione di Zhao Ziyang sia stata consentita. 
Detto questo, consiglio vivamente a tutti di smettere di pensare che, domani o in futuro piu' lontano, possa comparire un "Gorbaciov cinese". Se le riforme andranno avanti - cosa della quale sono tutt' altro che certo - andranno avanti in modo estremamente graduale, con delle piccole aperture a qualche forma di pluralismo interna al partito, con un prudentissimo aumento dell' indipendenza dalle direttive del partito di stampa e magistratura. 
Questo e' il massimo che ci possiamo aspettare dalla nuova coppia Xi Jinping/Li Keqiang. Se bastera' a salvare il partito dalla crisi di credibilita' che secondo molti lo minaccia, solo il tempo ce lo dira'.


Ecco qui sotto la mia traduzione e il link all' articolo del SCMP:

"Decine di persone si sono riunite ieri in una stradina non lontata dalla centrale Wangfujing, per rendere omaggio allo scomparso leader del Partito Comunista Zhao Ziyang nel 93esimo anniversario della sua nascita.
(I partecipanti alla commemorazione), in gran parte funzionari e insegnanti in pensione, sono arrivati ieri pomeriggio al n.6 del Fuqiang Hutong, dove abitava Zhao, per portare il loro saluto al famoso leader riformista, che divenne capo del partito al 13esimo Congresso del 1987 ma fu deposto nel 1989 per aver simpatizzato con gli studenti che avevano occupato piazza Tiananmen. 
"Spero che la nuova generazione di leader del partito possa proseguire nello spirito riformista di Zhao", ha detto uno dei funzionari in pensione che ha chiesto di non essere nominato, aggiungendo che la riforma politica e' richiesta con urgenza perche' la corruzione dei funzionari di partito sta minando la stabilita' sociale. Wang Fanghui, un imprenditore privato, ha affermato di essersi recato per la prima volta a rendere omaggio alla casa di Zhao. "Non e' che sappia molto di lui, perche' noi abbiamo solo informazioni censurate dal governo, ma mi sento fortunato per avere la mia piccola impresa e voglio dimostrare le mia ammirazione per questo riformista. Spero che con i nuovi leader il Paese diventi uno stato di diritto democratico".
Alcuni dei presenti hanno portato dei fiori, altri avevano ritratti di Zhao e bandiere con scritto: "coltiviamo il ricordo del 13esimo (congresso del partito, ndr) e speriamo nel 18esimo". Il partito ha annunciato il mese scorso che il suo 18esimo congresso nazionale si terra' a partire dal' 8 novembre nella Sala dell' Assemblea del Popolo, non lontano dalla casa nella quale Zhao fu tenuto in un isolamento quasi totale fino alla sua morte, sette anni fa. "Il partito puo' governare il Paese ma non gode piu' del sostegno delle masse'' ha detto Cheng Qingyu, capo ingegnere del China Millennium Monument, un museo-teatro di Pechino. "Per recuperare la fede del pubblico nel partito, la nuova generazione di leader dovra' essere molto diversa (da quella precedente, ndr)". "Onestamente, non mi sembra che questo stia succedendo. Il regime comunista e' una dittatura".
Zhao Wujun, il figlio piu' giovane di Zhao, ha detto di non aver avuto dalle autorita' nessun avvertimento, e che nessuno ha cercato di impedire l' assembramento. Ieri non sono stati notati agenti dei servizi di sicurezza o poliziotti in borghese di fronte alla casa, mentre la loro presenza e' stata costante in passato in altre occasioni delicate. La gente si e' inchinata di fronte ad una grande fotografia di uno Zhao sorridente, circondata da fiori, che e' stata esposta in una stanza. 
Nel giugno 1989, Zhao e' stato criticato per aver minacciato una scissione in nome dei valori del liberalismo occidentale, una cosa che molti conservatori esponenti della linea dura non potevano tollerare. ll partito evita di menzionare Zhao in pubblico, e in passato attivita' di commemorazione sono state represse dalle autorita'."

La versione orginale e' all' indirizzo:
http://www.scmp.com/news/china/article/1063494/mourners-gather-birthday-late-zhao-ziyang-salute-spirit-reform







mercoledì 17 ottobre 2012

Dopo Malala tutti contro i Taliban...davvero?


Il capo dell' esercito Ashfaq Parvez Kayani e il presidente pakistano Asif Ali Zardari hanno condannato con pesanti parole il tentato assassinio della quattordicenne Malala Yousufzai da parte dei cosidetti Taliban pakistani. 
Forse farebbero meglio a combattere veramente gli estremisti, per esempio arrestando il capo dei Taliban afghani, il mullah Omar e quello della Jamat -ul -Dawa Mohammad Hafiz Saeed, sul quale il governo degli USA ha messo una taglia di 10 milioni di dollari. Gli indirizzi? Se, come peraltro sospetto, Kayani non li sa gia', basta chiederli ai giornalisti pakistani e stranieri che seguono le vicende pakistane. Non per niente l' abitazione del mullah Omar a Quetta e' stata individuata, qualche anno fa, da Carlotta Gall del New York Times. E noi dovremmo credere i servizi non lo sapevano? Come non sapevano che Osama bin Laden stava nascosto ad Abbottabad? Ma ci prendono veramente per scemi?

Pubblico qui sotto un estratto, che si deve a Francesca Marino, di Apocalisse Pakistan, il libro che abbiamo scritto a quattro mani…Abbiamo chiamato il capitolo del quale fa parte "Tripli giochi e salti mortali", che ci sembra dia un' idea della situazione...
Da quando e' stato scritto sono cambiate poche cose: e' stata messa la taglia su Hafiz; a capo dell' Inter Service Intelligence  ISI il generale Zahir ul-Islam ha sostituito Shuj Pasha; il mullah Omar e' stato dato per morto ma, secondo alcuni, si sarebbe semplicemente trasferito da Quetta nella piu' sicura (per lui), Karachi.


Il caso Headley
Se fosse la trama di un romanzo di spionaggio, sarebbe forse giudicata troppo improbabile per essere vera. Eppure il cosiddetto ‘caso Headley’ è non solo del tutto reale ma rischia di trasformarsi in una bomba dagli effetti non del tutto prevedibili per gli Stati Uniti, per l’India e per i rapporti tra i due paesi. David Coleman Headley, cittadino americano di padre pakistano, viene arrestato il 3 ottobre 2009 dall’Fbi, con l’accusa di aver contribuito a progettare l’attacco di Mumbai del 26 novembre 2008 e di progettare un attentato alla sede del giornale danese che aveva pubblicato la famosa serie di vignette sul profeta Maometto. Assieme a lui viene arrestato Tahawwur Hussein Rana, cittadino canadese di origine pakistana che, come Headley, vive e lavora a Chicago. Ufficialmente, David Headley, il cui nome è stato fino al 2006 Daood Gilani, si reca molto spesso in Pakistan e in India come dipendente della First World Immigration Service, l’azienda di cui Rana è titolare. Gilani-Headley si sarebbe affiliato alla Lashkar-i-Toiba (LiT) nel 2005, e avrebbe inoltre avuto contatti molto stretti anche con Ilyat Kashmiri, ex membro dei corpi speciali dell’esercito pakistano e attualmente a capo della Brigata 313, una branca dell’organizzazione terroristica dell’Harkat-ul-Jihadi-al Islam strettamente connessa ad Al Qaida. Secondo le accuse, Headley si sarebbe recato in India circa nove volte, otto prima del 26 novembre 2008 e una nel marzo del 2009. Visitando a Mumbai tutti i siti in cui si sono poi verificati gli attacchi simultanei dei terroristi, e usando come punto d’appoggio la casa di un certo Rahul. Sulla stampa indiana si scatenano le illazioni riguardo all’identità di Rahul: si pensa perfino che possa trattarsi di Rahul Gandhi, figlio di Sonia e secondo molti futuro premier indiano. O anche di Sharukh Khan, il più famoso e potente attore di Bollywood al momento, che nei suoi film ha spesso interpretato personaggi che rispondevano al nome di Rahul. E in effetti, il misterioso Rahul ha molto a che fare, anche se non direttamente, con Bollywood. Si tratta difatti di Rahul Bhatt, figlio di Mahesh, noto e rispettato produttore e regista del cinema made in Mumbai. Su Daood Gilani alias Headley cominciano a venire fuori una serie di particolari inquietanti, come ad esempio il fatto che l’uomo è il fratellastro di un impiegato nell’ufficio delle relazioni pubbliche del premier pakistano. Le cose si complicano ulteriormente quando Rahul Bhatt rivela che Gilani-Headley si sarebbe più volte vantato di essere un agente sotto copertura della Cia: rivelando particolari, nello specifico, sulla Delta Force e su un corpo speciale, la Special Activities Division, che avrebbe il compito di condurre azioni di natura politica e paramilitare. La stampa americana (e quella indiana) rivelano inoltre che l’allora Daood Gilani sarebbe stato arrestato nel 1998 per traffico di droga. Condannato a meno di due anni per aver collaborato con gli inquirenti, sarebbe stato poi arruolato dalla Drug Enforcement Administration (Dea) e infiltrato da quest’ultima in Pakistan per condurre operazioni sotto copertura. Dopo l’11 settembre, si dice che anche la Cia potrebbe avere usufruito dei suoi servizi, infiltrandolo nella LiT per ottenere informazioni. Headley sarebbe, in sostanza, un agente dei servizi segreti americani che faceva il doppio e anche il triplo gioco. Washington si affretta a smentire la notizia ma, ovviamente, alla smentita non ci crede proprio nessuno. Tantomeno la stampa, i politici, l’intelligence e la polizia indiana, che sono praticamente furibondi. Anche perché sospettano che l’Fbi abbia di proposito evitato di informare New Delhi del viaggio di Headley in India del marzo 2009 per timore che il presunto terrorista fosse arrestato e interrogato dai servizi indiani. Così come sospettano che l’Fbi stia ancora una volta negoziando con Headley informazioni sulla LiT in cambio di uno sconto di pena, e stia cercando di coprire i legami di quest’ultimo con le agenzie di intelligence. Di certo, c’è che Headley si rifiuta di essere interrogato dagli investigatori indiani e che la Cia continua a smentire ogni legame con il terrorista ma si rifiuta di fare ulteriori commenti. Il presunto agente segreto, finito sotto processo a Chicago, comincia intanto a parlare e dichiara di avere avuto contatti con alti ufficiali dell’esercito pakistano ‘in servizio attivo e non’ impegnati nel dare sostegno operativo e logistico alla Lashkar-i-Toiba per progettare e organizzare l’attacco di Mumbai. Anzi, lo stesso Headley sarebbe stato di fatto presente nella control-room pakistana da cui gli strateghi della LiT dirigevano via cellulare i terroristi asserragliati nei vari edifici di Mumbai. Concluso il processo, su tutta la faccenda viene stesa una fitta coltre di silenzio mentre David-Daood negozia con le agenzie americane i termini della sua collaborazione. La puntata successiva, come da copione, arriva dopo qualche mese. E rischia di complicare ulteriormente, qualora se ne sentisse il bisogno, i rapporti già complicati tra i principali giocatori della partita: Stati Uniti, India e, ovviamente, lo stesso Pakistan. Per mesi, difatti, l’India ha continuato ad accusare Washington di tenere deliberatamente l’intelligence indiana all’oscuro di parte delle informazioni fornite da Headley e di impedire agli agenti della National Investigation Agency (Nia) di interrogare direttamente il presunto terrorista. La faccenda viene risolta quasi un anno dopo, quando agli uomini della Nia viene finalmente permesso di interrogare Headley. Il quale conferma puntualmente le prime dichiarazioni rilasciate, arricchendo la storia di vari particolari interessanti. Nulla di nuovo in realtà, ma conferme di quanto gli investigatori e il governo di New Delhi vanno ripetendo da anni e Islamabad smentisce da altrettanto tempo. Conferme sull’organigramma direttivo della Lashkar-i-Toiba, ad esempio, che dietro la cortina dell’organizzazione umanitaria Jamaat-u-Dawa continua a operare liberamente in Pakistan. La strage di Mumbai, conferma Headley, è stata progettata e diretta da Lahore dagli uomini della LiT. Al cui vertice si trova Mohammed Hafiz Saeed, con cui Headley non ha mai avuto contatti diretti durante l’organizzazione della strage di Mumbai ma che “non poteva non sapere” perché nulla si muove nell’organizzazione senza che Saeed ne sia a conoscenza. La notizia non è nuova, ma è suscettibile di una serie di sviluppi. Saeed ha sempre dichiarato infatti di essere estraneo all’organizzazione. E Islamabad rifiuta di arrestarlo, non parliamo poi di consegnarlo all’India o all’Interpol, con la scusa che “non ci sono prove sufficienti” del suo coinvolgimento nella strage di Mumbai e che non può essere arrestato perché non ha mai commesso alcun reato in territorio pakistano. Messo agli arresti domiciliari lo scorso anno dietro forti pressioni indiane e della Casa Bianca, è stato rilasciato su sentenza della Corte Suprema di Lahore: il principale capo di imputazione a suo carico era difatti l’avere avuto “legami e connessioni” con Al Qaida e, secondo la Corte Suprema di Lahore “Al Qaida, in Pakistan, non è un’organizzazione fuorilegge”. Alle dirette dipendenze di Saeed si trovano Abdur Rehman Makhi, che funge da ministro degli Esteri, e Zaki-ur-Rehman Lakhvi: capo militare dell’organizzazione e, secondo Headley, organizzatore di fatto della strage di Mumbai. Sia Makhi che Lakhvi, inutile dirlo, si aggirano liberi e felici per il Pakistan in generale e per Lahore in particolare. Per trovarli basta andare in una moschea della città vecchia, protetta da uomini armati e, guarda caso, dalla polizia pakistana. Che, ufficialmente, non ha notizie di nessuno dei due gentiluomini in questione. Headley rivela anche che la LiT si è dotata, sul modello delle Tamil Tigers, di una marina militare particolarmente utile per raggiungere l’India da Karachi (…). E che a Karachi, in particolare, è stata fondata una cellula che ha il compito di reclutare giovani provenienti dagli stati indiani del Maharashtra e del Gujarat. D’altra parte, non è un segreto per nessuno che dal Gujarat a Karachi si passa a dorso di cammello ogni notte attraverso il deserto: costo dell’operazione, qualche centinaio di rupie. Una cellula dell’organizzazione è stata inoltre fondata anche in Thailandia, dove è stato inviato nel 2006 Abu Anas, fino a quel momento a capo della sezione di Rawalpindi. Non un uomo da poco, visto che Anas si è incontrato parecchie volte con Osama bin Laden e si dice abbia stretti rapporti con Al Qaida. Ciliegina sulla torta, e vero piatto forte delle rivelazioni di Headley, sono però i rapporti tra membri della Lashkar-i-Toiba e gli uomini dell’Isi e dell’esercito pakistano. Saeed sarebbe difatti protetto dai servizi segreti: così come Lakhvi, che godrebbe anche di una relazione privilegiata con l’attuale capo dell’Isi, il generale Shuja Pasha. Headley conferma inoltre il coinvolgimento diretto nella preparazione della strage di Mumbai, e nell’organigramma della Lashkar-i-Toiba, di “membri dell’esercito pakistano in pensione e in servizio attivo”. In particolare, di due maggiori dell’esercito attualmente in servizio: il maggiore Iqbal e il maggiore Sameer Ali contro cui l’Interpol, su richiesta di New Delhi, ha emesso una ‘red notice’….
(di Francesca Marino).





lunedì 15 ottobre 2012

Una brava giornalista, le riforme e le illusioni


Pubblico questo pezzo di Hu Shuli, coraggiosa e brillante giornalista cinese, per esprimere il mio dissenso. Capisco - almeno credo - le limitazioni che le impone la sua situazione e ho sempre ammirato, da quando sono arrivato in Cina, molti anni fa, la sua capacita' di dire quello che bisogna dire senza oltrepassare la sottile linea rossa oltre la quale verrebbe ridotta al silenzio. 
Hu ha fondato e diretto prima la rivista Caijing poi, nel 2007, quella chiamata Caixin. Entrambe, con le loro inchieste approfondite e audaci, hanno segnato il punto piu' alto del giornalismo cinese negli anni della "riforma e apertura".
In questo caso pero', Hu accetta come "fatti" quelli esposti dalla magistratura cinese, che non e' assolutamente indipendente dal potere politico, e dal Politburo, che e' il potere politico cioe' in Cina il potere unico e assoluto. Cosa marginale, ma significativa di questa accettazione, e' che chiama Gu Kailai "Bogu Kailai", sottolineando i suoi legami col marito, come la propaganda ufficiale fa da quando e' esploso il caso. Ma questo e' un dettaglio. 
Il fatto e' che non abbiamo alcuna prova che tutta la storia sia vera a parte le confessioni di Wang Lijun e della stessa Gu Kailai che - come ho cercato di spiegare nel mio post "La strana storia del signor Zhao Zuohai", del 29 settembre - non hanno alcun valore. Se gli stessi processi si celebrassero in qualsiasi stato di diritto  - non desiderato ma effettivo - gli imputati sarebbero certamente assolti, se non altro per insufficienza di prove. 
Ma il punto e' un altro: non abbiamo alcuna prova che il caso Bo Xilai abbia rafforzato la volonta' riformista in seno al Partito Comunista Cinese. Se questo fosse vero, infatti, perche'  basare le accuse contro Bo su processi-farsa, senza testimoni, senza veri avvocati difensori e arrivare a condanne senza prove? Perche' non fare - questa si', che sarebbe una novita' - dei processi pubblici e trasparenti, dando alla difesa gli strumenti necessari a fare il proprio lavoro? 
La gestione del caso Bo - al contrario di quello che crede/spera Hu Shili - dimostra che, purtroppo, nel gruppo dirigente cinese la vicenda non ha portato fino ad oggi ad alcun cambiamento politico significativo. 

qui sotto prima la mia traduzione, poi la versione in inglese della stessa Caixin online:

BO XILAI COME CATALIZZATORE DELLE RIFORME POLITICHE

di Hu Shuli

Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, il processo disciplinare che riguarda il caso di Bo Xilai avra' conseguenze di importanza storica. I dettagli che si sono appresi sui crimini di Bo, di sua moglie Bogu Kailai, e del suo ex-braccio destro Wang Lijun indicano un livello di comportamento che minaccia la dignita' del sistema legale e ignora le leggi per conseguire scopi personali. 
In futuro possiamo aspettarci che Bo sia processato in Tribunale, condannato e punito severamente, in accordo con la legge, mentre la nazione si prende una pausa per riflettere sull' urgente bisogno di ulteriori riforme, in particolare nel settore politico, che e' emerso da questo caso.
Il Politburo ha diffuso simultaneamente le sue conclusioni, la decisione di espellere Bo dal Partito Comunista, e la data per il 18esimo Congresso del Partito, che si terra' all' inizio di novembre, sottolineando la relazione tra i due fatti.
Il presidente Hu Jintao ha sottolineato l' importanza delle riforme politiche il 23 luglio - a tre mesi dall' inizio dell' indagine su Bo -  in una discorso alla Scuola Centrale del Partito. Recentemente, in un' altra occasione, il vicepresidente Xi Jinping ha espresso la sua decisa opinione sulle riforme. E il 29 settembre al banchetto per la Festa della Repubblica, il premier Wen Jiabao ha riaffermato la fermezza del governo nel  voler realizzare riforme di ampia portata.  Chiaramente, dopo che e' venuto alla luce il caso Bo a Pechino sono suonati dei campanelli d' allarme. 
Quando era capo del Partito a Chongqing, Bo aveva la reputazione di un nemico ferreo del crimine. Ma dietro le quinte, abusava del suo potere mentre sua moglie e il suo capo della polizia (Wang Lijun, ndt) violava le leggi. Nel corso della loro risoluta azione contro la criminalita' organizzata della citta', Bo e i suoi seguaci hanno manipulato il sistema legale e hanno rafforzato il loro controllo sull' apparato di polizia, mentre allo stesso tempo mettevano in piedi la piu' grande mafia della metropoli. 
Il controllo assoluto sulla polizia ha dato a Bo e a sua moglie la possibilita' di ignorare il processo legale e di usare la legge per proteggere i loro interessi personali. Cosi' l' autorita' di Bo a Chongqing era diventata pericolosa, di fatto totalitaria.
Per prevenire nuovi incidenti di questo tipo e' necessario stare in guardia contro un eccessivo potere della polizia e contro tutte le minacce allo stato di diritto. I recenti discorsi di Hu e Wen indicano che sono coscienti che il processo di riforma si basa sulla costruzione della democrazia e dello stato di diritto. 
L' annuncio dato il 28 settembre dal Poliburo sull' esplusione di Bo dal Partito e' stato accompagnto anche dalla diffusione delle conclusioni degli investigatori, secondo le quali sia lui che membri della sua famiglia hanno usato le loro posizioni ufficiali per scopi privati e hanno ricevuto tangenti per un periodo di oltre 20 anni, mentre ricopriva importanti posizioni governative a Dalian, nella provincia del Liaoning; a Chongqing; e come ministro del commercio nel governo centrale.  Molti si sono chiesti se la corruzione non avrebbe potuto essere scoperta prima. Ma forse ci si puo' porre un' altra domanda, piu' profonda: perche' le persone che ricoprono le cariche di sindaco, ministro o altri ruoli di governo importanti dopo essere salite al potere si dedicano alla ricerca di vantaggi personali?   
Circa 20 anni fa gli economisti ammonivano che la ricerca della ricchezza, nell' economia cinese in transizione, avrebbe portato alla corruzione. E aggiungevano che una soluzione avrebbe dovuto essere cercata nel perfezionamento dell' economia di mercato. Ora, in questo momento  cruciale dello sforzo della Cina sulle riforme, il compito piu' urgente e difficile e' quello di ridurre l' intervento del governo nell' attivita' economica, limitando cosi' le opportunita' di ricercare vantaggi personali. 
Ogni caso di corruzione e' diverso,  e il caso Bo in particolare e' unico. Ma la terapia fondamentale contro tutti i tipi di corruzione in Cina deve comprendere dei passi per ridurre il ruolo del governo nell' economia attraverso le riforme.  
La costruzione di istituzioni e la lotta alla corruzione richiedono tempo, quindi non c' e' tempo da perdere. Un' altra efficace misura contro la corruzione dei funzionari e' la copertura da parte dei media. Quindi, i media devono essere lasciati liberi di giocare il loro ruolo e la loro responsabilita' di cani da guardia. La misure per migliorare la situazione dei media  devono avere un ruolo importante nel processo di riforma politica. Questo e' un cambiamento che puo' essere realizzato immediatamente. 
Lo scandalo Bo ha provocato danni gravi ed e' stato pagato caro. Ci ha fatto capire molto sulla corruzione dei funzionari e ha messo in primo piano le motivazione a favore delle riforme politiche. Ma la vera lezione che abbiamo imparato da questo disgraziato caso e' che e' necessario agire, al piu' presto.



  

BO XILAI AS A CATALYST FOR POLITICAL REFORM
the scandal has given reform advocates in China fresh and compelling reason to press forward

No matter how you look at it, the disciplinary process surrounding the case of Bo Xilai will have historic implications.
Details of the crimes committed by Bo, his wife, Bogu Kailai, and his former right-hand man, Wang Lijun, reflect a level of wrongdoing that threatened the legal system's dignity and undermined the rule of law for the sake of personal gain.
What we can expect next for Bo is a court trial, sentencing and serious punishment, in accordance with the law, while the nation pauses to reflect on the urgent need for further reform, especially in the political arena, brought to the fore by his case.
The Politburo released its findings and a decision to oust Bo from the Communist Party simultaneously with a schedule for the 18th Party Congress to be held in early November, underscoring clear correlation of these events.
President Hu Jintao emphasized the importance of political reform on July 23 – three months after authorities launched the Bo investigation – in a speech at the Central Party School. On a separate occasion recently, Vice President Xi Jinping echoed this firm stance for reform. And on September 29 at a National Day banquet, Premier Wen Jiabao reaffirmed the government's resolve to advance comprehensive reform.
Clearly, alarm bells were ringing in Beijing after details of the Bo case came to light. The central government then reacted by strengthening its determination to support political reform.  
As Chongqing's party chief, Bo had a reputation for fighting crime with an iron fist. But behind the scenes, he abused his power while his wife and police chief broke the law. During a vigorous war against organized crime in the city, Bo and his affiliates manipulated the legal system and strengthened their grip on police power, even while building the biggest mafia in town.
Absolute control over the police gave Bo and his wife the power to cheapen the legal process and misapply laws to protect their personal interests. Bo's authority in Chongqing thus turned dangerous, even totalitarian.
Preventing future incidents of this kind will require guarding against excessive police power and all threats to the rule of law. The speeches recently delivered by Hu and Wen reflect their awareness that the reform process hinges on building democracy and the rule of law.
The Politburo announcement booting Bo from the party September 28 also described investigator conclusions that he as well as family members abused his official status for private gain and accepted bribes over a 20-year span, while he held senior government positions in Dalian, Liaoning Province; Chongqing; and as the central government's minister of commerce.
Many have asked whether this corruption could have been detected earlier. Maybe we should ask a deeper question: Why do people appointed as mayors, ministers and other senior officials seek private gain after rising to power?
Some 20 years ago, economists were warning that rent-seeking behavior in China's transition economy would lead to corruption. They also said an effective solution could be found by perfecting the market economy.
Now, at this crucial juncture for China's reform effort, the most urgent and difficult task on the agenda calls for reducing government intervention in economic activities and, thus, reducing opportunities for rent-seeking.
Every corruption case is different, and the Bo case is especially unique. But fundamental therapy for any form of corruption in China should include steps to restrain the government's role in the economy through reform.
It takes a long time for institution-building to contribute significantly to a fight against corruption. So we should not delay.
Another effective safeguard against official corruption is offered by media coverage. Thus, the media should be allowed carry out its role and responsibility as a watchdog. Efforts to improve the media's position should play an important role in the political reform process. This is a change that can be implemented immediately.
The Bo scandal inflicted significant damage at a huge cost. It told us a lot about official corruption and focused a searing light on reasons for political reform. But the real lesson we've learned from this disgraceful case is that action is needed, as soon as possible.




  

domenica 14 ottobre 2012

Immolazione numero 55, disperati pensieri sul Tibet

                                                 
                                       

TIBET: NUOVA 'AUTOIMMOLAZIONE ANTI-CINA PORTA A 55 IL TOTALE

  (ANSA) - PECHINO, 13 OTT - Un altro tibetano si e' "immolato", dandosi fuoco per protesta contro la politica della Cina nel territorio, secondo fonti della diaspora tibetana.
Se confermata, la nuova immolazione porterebbe a 55 il totale dei tibetani che hanno scelto questa estrema forma di protesta anticinese. Tandin Dorjee, di 52 anni, si è "autoimmolato" ieri a Tsoe nella prefettura di Kanhlo (Gannan in cinese), nella provincia cinese del Gansu. Testimoni citati da siti web di esuli tibetani affermano che l' uomo ha lanciato slogan per il ritorno in Tibet del Dalai Lama - che vive in esilio in India dal 1959 - e per la libertà del Tibet. Tamdin Dorjee è il nonno del settimo Gunthang Rinpoche, un "Buddha reincarnato" molto popolare nella regione. La Regione autonoma del Tibet e vaste aree delle regioni cinesi a popolazione tibetana sono chiuse agli osservatori indipendenti dal 2008, quando decine di
persone persero la vita nel corso di una rivolta anticinese. La prima autoimmolazione è avvenuta nel 2009. Tutte le altre si sono verificate a partire dal marzo del 2011.(ANSA).


Questa la notizia che ho mandato ieri all' ANSA. Difficile, molto difficile fare commenti. Ci provo comunque: in Tibet le cose continueranno cosi'. Al momento non c' e' nessuno, forse neanche il Dalai Lama, che possa fermare questa estrema, disperata forma di protesta. Del resto, ne' il Dalai Lama ne' chiunque altro abbia a cuore la causa tibetana potrebbe onestamente dire che sarebbe un bene se finissero. La verita', dura da accettare, e' che le autoimmolazioni sono oggi l' unica cosa che tiene viva l' attenzione sul Tibet che, come ho accennato nella notizia qui sopra, per una vasta parte e' completamente chiuso a tutti gli osservatori indipendenti dal marzo del 2008. E per Tibet intendo tutto il Tibet storico, comprese le zone tibetane delle provincia cinesi del Qinghai, Gansu, Sichuan, Yunnan. In questi anni ci sono stati - e continuano ad esserci - arresti, condanne, esecuzioni, corsi di rieducazione forzata.
D' altra parte, almeno per ora, le autoimmolazioni non sono in grado di smuovere il governo cinese dalla sua posizione intransigente. Pochi intellettuali - lo scrittore Wang Lixiong, l' avvocato Teng Biao - si sono pronunciati a favore dei tibetani ma rimangono voci isolate, seppure nobili e ragionevoli.
Riassumendo: Pechino non cede, i tibetani nemmeno. Le autoimmolazioni continuano e si intensificano.
Pazza idea: e se fosse un terzo soggetto a fare qualcosa di nuovo, di importante, qualcosa che venisse notato e discusso a livello internazionale, in tutto il mondo, Cina compresa? Qualcosa che potrebbe almeno avere qualche speranza di riaprire i giochi (e quindi di far terminare le immolazioni)? Se fosse per esempio l' Unione Europea, fresca di premio Nobel per la pace? Un premio che ha riconosciuto - proprio ora che e' in crisi e che invece gli USA delle iniezioni letali e la Cina delle cinque-diecimila esecuzioni annuali sono le potenze dominanti - la sua civilita' in merito di diritti, di rispetto dell' individuo, di liberta' e di dignita'?  Non e' su questo, sulla sua forza storica e morale che l' Europa dovrebbe puntare per rilanciarsi?